DANIELE 1



Daniele 1:1-2

Ci furono tre assedi di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. Le date potrebbero variare di un anno rispetto

a quelle sotto elencate:

—605 a.C.: questo assedio fu sotto il regno di Jehoiakim. Daniele e i suoi amici furono deportati in questo

assedio (vedi 2Re 23:36-24:1, 2Cronache 36:5-7), che avvenne nel 1° anno del regno di Nabucodonosor. 

—597 a.C.: questo assedio fu sotto il regno di Jehoiakin (vedi 2Re 24:8-17, 2Cronache 36:9-10); fu nell’8°

anno di Nabucodonosor (vedi 2Re 24:12).

—586 a.C.: questo assedio fu sotto il regno di Sedekia (vedi 2Re 25:1-21, 2Cronache 36:11-21); fu nel 19°

anno di Nabucodonosor (vedi 2Re 25:8).

Daniele disse quale fu la causa dell’esilio dei giudei a Babilonia: fu Dio stesso a dare i giudei nelle mani del re Nabucodonosor. L’esilio fu la punizione di Dio per l’infedeltà del Suo popolo così come era stato profetizzato secoli prima da Mosè (vedi Deuteronomio 28:49-68). Troviamo la stessa motivazione nelle Cronache (vedi 2Cronache 36:13-17). Insieme alle profezie dell’esilio, Dio aveva dato anche promesse di restaurazione per il Suo popolo (vedi Deuteronomio 4:23-31, 30:1-10, Geremia 25:11-12, 29:10-14).

Dio chiamò Nabucodonosor “mio servo” (Geremia 25:9, 27:6, 43:10). Questo non significa che Dio mise nel cuore di questo re pagano l’ambizione di conquistare i popoli vicini, il desiderio di distruggere Gerusalemme e il tempio. Ma Dio lo chiamò suo servo perché in qualche modo si servì di lui per adempiere i Suoi scopi, in questo caso punire il regno di Giuda.

 Daniele e i suoi amici erano giovani nobili di Giuda. Erano stati scelti insieme ad altri giovani senza difetti fisici e intelligenti per studiare tre anni e diventare parte dei savi di corte del re.

 A Daniele e ai suoi amici fu cambiato il nome. 

Ecco il signficato dei loro nomi in ebraico: 

Daniele significa “Dio è il mio giudice”,

 Anania “Dio è misericordioso”,

 Mishael “Chi è come Dio?” 

e Azaria: “Il Signore è il mio aiuto”. 

Il capo degli eunuchi diede loro dei nomi babilonesi: 

 vuol dire “Principe di Bel” e Bel era uno degli dèi babilonesi (vedi Geremia 50:2);

 Shadrach vuol dire “Illuminato dal dio sole”, 

Meshach: “Chi è come Venere?” 

e Abednego: “Il servo di Nego” (Nego era un altro dio pagano).

Il re voleva cambiare la loro identità nella speranza che si sarebbero conformati alla cultura e alla religione di Babilonia. 

Il re Nabucodonosor diede a tutti i giovani scelti il suo cibo e il suo vino. Ci sono diverse ragioni per le quali Daniele ed i suoi amici non vollero mangiare il cibo del re e bere il suo vino. Il testo dice che Daniele decise di “non contaminarsi con i cibi squisiti del re” (v. 8). Il fatto che Daniele non volesse contaminarsi significa che tra i cibi del re erano presenti cibi che erano considerati impuri secondo le indicazioni che Dio aveva dato a Mosè (vedi Levitico 11:1-31). Anche se ci fossero state carni pure, Daniele e i suoi amici non avrebbero potuto mangiarne perché non erano sicuramente state uccise secondo la legge levitica (vedi Levitico 17:14-15).

Inoltre, questi cibi erano quasi certamente stati sacrificati ai falsi dèi di Babilonia. Se li avessero mangiati avrebbero dato la falsa impressione che stavano onorando gli dèi di Babilonia. Daniele e i suoi amici non volevano dare un messaggio che non era vero, sembrare ciò che non erano solo per non dare problemi; si astenevano da ogni forma di male, inclusa l’apparenza di male (vedi 1Tessalonicesi 5:22).

Ma Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con i cibi squisiti del re” (v. 8): Daniele fu fermo, determinato. Decise nel suo cuore che non sarebbe sceso a compromessi nei suoi princìpi, che gli provenivano dalla Parola di Dio. 

La fedeltà a Dio è l’unico corso sicuro da seguire, l’unica barriera contro il peccato nel cuore. Dopo il primo compromesso, Satana porta le persone sempre più lontane da Dio inducendole a peccare in altre aree della loro vita. Se avesse voluto, Daniele avrebbe potuto trovare delle scuse per la sua infedeltà a Dio. Avrebbe potuto pensare che il suo rifiuto lo avrebbe reso nemico del re che gli stava offrendo l’opportunità di studiare per avere una posizione di rilievo nel regno; ne valeva la pena rischiare la vita solo per un po’ di cibo?

 “Infatti, cerco io ora di cattivarmi l'approvazione degli uomini o quella di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Infatti, se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Galati 1:10).

Gesù compiaceva Dio in ogni scelta della vita: “E Colui che mi ha mandato è con Me; il Padre non mi ha lasciato solo, perché faccio continuamente le cose che gli piacciono” (Giovanni 8:29). E questa è anche la nostra chiamata in quanto cristiani; infatti Paolo scrisse ai Colossesi: “Non cessiamo mai di pregare e di chiedere che siate ripieni della conoscenza della sua volontà, in ogni sapienza ed intelligenza spirituale, perché camminiate in modo degno del Signore, per piacergli in ogni cosa” (Colossesi 1:9-10).

Il capo degli eunuchi temeva per la sua vita; aveva paura per la richiesta stessa, ma anche, nel caso la richiesta fosse stata accettata, per l’aspetto sciupato che i giovani avrebbero potuto avere e che avrebbe potuto causare la sua morte. Daniele parlò poi a Meltsar, che era stato preposto alla cura dei giovani ebrei, e gli parlò con una saggezza che proviene dall’alto, con prudenza e senza presunzione (vedi Proverbi 8:12, 16:21). Daniele fece una richiesta ragionevole: chiese una prova di 10 giorni. Al termine della prova Meltsar avrebbe giudicato il loro aspetto.

Daniele propose a Meltsar una dieta semplice. La parola tradotta con legumi è zêrôa‛, che deriva dalla parola zâra‛ che significa seminare; perciò indica cibi che sono seminati, tra cui ci sono cereali, legumi e ortaggi. Daniele chiese solo 10 giorni di prova; potrebbe sembrare un periodo troppo corto per vedere una qualche differenza con gli altri. 

Dio diede a Daniele e ai suoi amici conoscenza e intendimento ed essi eccelsero nei loro studi. La loro intelligenza e sapienza fuori dal comune era legata allo studio delle Scritture: “I Tuoi comandamenti mi rendono più saggio dei miei nemici, perché sono sempre con me. Ho maggior intendimento di tutti i miei maestri, perché i Tuoi comandamenti sono la mia meditazione. Ho maggior intelligenza dei vecchi, perché osservo i Tuoi comandamenti... Per mezzo dei Tuoi comandamenti io acquisto intelligenza... La rivelazione delle Tue parole illumina e dà intelletto ai semplici” (Salmo 119:98-100,104,130).

Daniele ricevette anche il dono di profezia. Nessun altro giovane poteva competere con la sapienza e l’intelligenza di Daniele e dei suoi amici; furono trovati di gran lunga superiori a tutti gli altri e con il tempo divenne evidente che questo era dovuto alla loro connessione con il Dio del cielo (vedi Daniele 2:47, 4:8, 5:10-12).

“Nell’acquisizione della sapienza babilonese Daniele e i suoi compagni riuscirono molto meglio degli altri studenti, ma le loro conoscenze non erano frutto del caso: le ottennero col fedele uso delle loro facoltà intellettuali e sotto la guida dello Spirito Santo. Essi erano in contatto con la fonte di ogni sapienza e facevano della conoscenza di Dio la base della loro educazione. Essi pregavano con fede per acquisire la saggezza e vivevano in armonia con le loro preghiere. Essi ricercavano la costante benedizione di Dio, evitando tutto ciò che rischiava di indebolire le loro facoltà, cogliendo tutte le occasioni per svilupparle. Avevano un’unica preoccupazione: onorare il Signore. Sapevano che per rappresentare la vera religione, in seno al paganesimo, essi dovevano possedere un’intelligenza lucida e perfezionare il loro carattere. Dio stesso era il loro istruttore. Pregando costantemente, studiando in modo coscienzioso e stando in contatto con l’Invisibile, essi camminavano con Dio come aveva fatto Enoc.

Il vero successo in qualsiasi ambito di lavoro non è il risultato della fortuna o del destino. È il risultato delle benedizioni divine, la conseguenza della fede, della saggezza, della virtù e della perseveranza. Brillanti qualità intellettuali, un livello morale elevato non sono frutto del caso. Dio suscita le occasioni, il successo dipende dall’uso che se ne fa. [...]

Egli mise Daniele e i suoi compagni in contatto con gli uomini più importanti di Babilonia affinché in una nazione pagana essi potessero rappresentare il carattere divino. Come riuscirono a occupare una posizione di così grande responsabilità e di così grande importanza? La loro vita era caratterizzata dalla fedeltà nelle piccole cose. Essi onorarono Dio negli incarichi più modesti come anche nelle responsabilità importanti. [...]

Un carattere nobile non è il risultato del caso, non è frutto di doni o speciali benedizioni divine. È il risultato dell’autodisciplina e della sottomissione degli istinti a sentimenti più nobili, della resa dell’io per servire il Signore e il prossimo. Mediante la fedeltà ai princìpi della temperanza, manifestata dai giovani ebrei, Dio parla ancora ai giovani di oggi. C’è bisogno di uomini che, come Daniele, sappiano agire e osare in favore della giustizia; c’è bisogno di cuori puri, mani forti, grande coraggio nella lotta tra vizio e virtù che richiede una vigilanza costante. [...]

I giovani oggi possono avere lo stesso spirito che animava Daniele; essi possono attingere alla stessa fonte per ottenere la stessa forza, possedere lo stesso autocontrollo e rivelare nella loro vita la stessa grazia anche nelle circostanze più sfavorevoli. Nonostante la tentazione di soddisfare i propri desideri, specialmente nelle grandi città dove la sensualità si presenta sotto le forme più allettanti, essi devono perseguire il loro obiettivo di onorare Dio. Grazie alla loro fermezza e a una vigilanza costante essi possono resistere a tutte le tentazioni che li assalgono. Solo chi ha deciso di agire correttamente conseguirà la vittoria. [...]

Il Signore desidera che anche oggi i giovani trasmettano le stesse verità rivelate da questi ragazzi. La vita di Daniele e dei suoi amici è la dimostrazione di ciò che Dio può fare per coloro che si affidano a lui e cercano con tutto il loro cuore di realizzare i suoi progetti” (Ellen White, “Profeti e re”, pag. 245-247).


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